Fratellanza o fraternità?

Il programma di lavoro sulle qualità relazionali tocca, quest’anno, il tema della distinzione tra fratellanza e fraternità.

La fratellanza può essere consanguinea o famigliare oppure essere un criterio etico (Dichiarazione dei diritti dell’uomo) e si struttura in processi associativi chiusi: fratellanze religiose, nazionali, di classe che hanno espresso l’universalismo mutuandolo in solidarietà verso altri sistemi associativi.

La fraternità è invece un sentimento che si sviluppa nella relazione tra fratelli, tra amici, tra colleghi, tra parenti: meglio essere fraterni senza dirlo, che dirlo senza esserlo.

 

La fratellanza biologico/famigliare[1]

Gelosia e Invidia:

Il maggiore è sempre geloso del minore e il minore è sempre invidioso del maggiore.

Il bambino scopre di non essere più l’unico centro di interesse dei genitori, deve dividere l’affetto e deve lasciare il posto di privilegiato al nuovo nato. L’ex figlio unico interpreta come “preferenze” gli atteggiamenti di cura verso il fratello che gli appare come rivale e concorrente. Tale rivalità tra fratelli è attuata per attirare l’attenzione dei genitori.

Marcel Rufo: “i rapporti tra fratelli si costruiscono sulla base di relazioni affettive imposte, non ci scegliamo né fratelli né sorelle, ci sono imposti dai genitori”. Si è fratelli per nascita ma non tutti riescono ad essere fraterni, così come non tutti i genitori riescono a diventare padri e madri.

Ai genitori spetta il compito di fare in modo che tali relazioni affettive diventino armoniche attraverso un uso intelligente dell’affettività. “La mano destra non sappia cosa fa la sinistra” significa moderare l’affettività, i complimenti e le effusioni in presenza dei diversi figli per trasmetterle invece nel rapporto a due. Le madri invece si considerano sempre imparziali nell’amore e tendono a sottovalutare del tutto la gelosia e l’invidia che i figli hanno tra di loro. Alle madri sembra impossibile che i figli possano nutrire sentimenti negativi per i fratelli. In genere i genitori pensano che i figli si amino tra di loro e considerano la gelosia un difetto senza pensare che ”la gelosia non è un difetto ma una sofferenza”  come afferma M. Porot.

Rivalità:

I sentimenti di rivalità possono essere modulati dal comportamento adottato dai genitori. Hellinger afferma che c’è un ordine gerarchico “dell’appartenenza alla famiglia regolato dalla sequenza temporale dell’appartenenza. Nel sistema familiare il primogenito ha la precedenza sul secondogenito.”

Adler chiama dramma della detronizzazione le frustrazioni subite dal primogenito/a: cambio di stanza, di posto a tavola, allontanamento presso nonni e parenti, ecc. Per evitare l’eccesso di frustrazioni bisogna saper preparare il bambino all’arrivo del fratello/sorella.

Il primogenito percepisce il cambiamento del suo posto: ”voglio un fratello o una sorella ma vorrei restare sempre la più piccola”. (M. Rufo)

Il maggiore manifesta rivalità diverse a seconda:

18 mesi di differenza: rivalità minima perché i fratelli si mescolano, possono però sorgere problemi di differenziazione di identità come tra gemelli.

3 o 4 anni di differenza: il primogenito si adatta con difficoltà per le richieste di responsabilità da parte dei genitori (autosufficienza, buon comportamento a casa e a scuola).

6 anni di differenza: può diventare protettivo e assumere il ruolo di vice genitore.

Privilegi:

I figli maggiori accusano i genitori di avere delle preferenze perché vedono accordati al cocco di mamma privilegi che a lui vengono negati.

Le preferenze dei genitori ci sono quasi sempre ma sono inconsapevoli. Le principali sono rivolte al  figlio primogenito che rappresenta la prova di riproduzione superata ed a cui vengono dedicate molte più attenzioni che verso i figli cadetti. Proprio per questo motivo i primogeniti sono in genere più ansiosi.  Anche le aspettative dei genitori determinano atteggiamenti privilegiati spesso legati a somiglianze fisiche e tratti caratteriali che determinano pregiudizi oppure insorgono in ragione di problemi di salute, o difetti, che generano ansia ed iperattenzione verso un figlio. Anche le capacità fisiche, l’intelligenza e il rendimento scolastico sono fattori che inducono preferenze

Qualità dell’amore materno e paterno:

Lo squilibrio affettivo produce nel bambino la sensazione di essere poco amato, se rappresenta un fallimento, o troppo amato, se soddisfa le aspettative. Le valutazioni della madre e del padre influenzano moltissimo la percezione di sé perché le valutazioni non meritevoli tendono ad essere escluse dal sé del bambino: egli tende ad essere ciò che gli altri vogliono che egli sia e non quello che in realtà è.

Ove egli sperimenti gelosia o invidia tende a negarla anche a se stesso per non far scoprire questa negatività ai genitori. Proprio perché tali sentimenti negativi possono essere superati solo se vengono verbalizzati, la negazione ne impedisce la metabolizzazione. Gelosia e invidia tendono così a trasformarsi in disturbi del carattere e in disadattamento scolastico ed aumentano la rivalità fraterna psicologicamente inibita.

Il cerchio negativo si stringe ancora di più se i genitori commettono l’ulteriore errore di fare paragoni. Non solo in funzione dell’aumento della rivalità ma anche perché l’eccesso di paragoni positivi determina lo sviluppo del narcisismo egocentrico, l’eccesso di paragoni negativi determina il complesso di inferiorità. Ambedue ritardano l’accertamento della personale identità che si sviluppa solo con rinforzi positivi delle personali qualità.

Inoltre nei figli si infiltra il dubbio sull’amore genitoriale (specie materno). Tale dubbio, che quasi mai giunge ad essere espresso, si trasforma in non accettazione di sé e sfiducia nella proprie capacità. Oppure in iper responsabilizzazione, ansia e fissazione al fine di essere amati per quello che si fa o per gli obiettivi che si raggiungono e non per quello che si è. Ciò determina la confusione tra amore e stima. Se manca la fiducia in se stessi è compromesso il successo nella vita perché non ci si sente riconosciuti come degni d’amore o perché si pensa di aver deluso e scontentato i genitori.

La fratellanza universale

I due termini “fratellanza” e “fraternità” tendono ad essere considerati sinonimi mentre in realtà essi non lo sono sia nell’etimologia che nella storia.

La fratellanza politica risale allo slogan della Rivoluzione francese del 1789 “Liberté, Egalité, Fraternité” che non si traduce in dispositivi giuridici concreti almeno fino al 1848. Per di più essa  assumerà sfumature nazionalistiche (fratelli erano solo coloro che appartenevano alla stessa nazione o classe sociale). La fratellanza religiosa si traduce in associazioni come le confraternite formate soprattutto da laici che s’impegnano in opere di carità e soccorso, nella sepoltura dei morti, nella beneficenza per i poveri e gli emarginati. Anche nelle comunità monastiche, ove è in uso il termine fraternità, si intende un rapporto affettivo, particolare e privilegiato nel condividere lo stesso ideale di vita ma così si confonde l’idea della fraternità con quella della perfezione della amicizia.

Con il marxismo il principio di fratellanza si concretizza in quello di solidarietà all’interno di quelle classi che condividono le difficoltà e gli strumenti di lotta per superarle.

La forma giuridica definitiva della risoluzione alla fraternità è contenuta nell’art.1 della DICHIARAZIONE UNIVERSALE DEI DIRITTI UMANI che recita: “Tutti gli esseri umani nascono liberi ed eguali in dignità e diritti. Essi sono dotati di ragione e di coscienza e devono agire gli uni verso gli altri in spirito di fratellanza”.

La fratellanza universale fa appello alla condizione che accomuna tutti gli uomini tale da condividere la stessa sorte di vita e di morte e si realizzi nella solidarietà verso popoli in particolari difficoltà per malattie, carestie, mancanza d’acqua, malnutrizione. A questo concetto si ispirano molte Organizzazioni non governative come l’UNESCO, la FAO, l’UNICEF, l’OMS, l’ILO, l’UNHCR.

La fratellanza universale è un concetto contenuto in molte associazioni culturali, religiose, massoniche ed esoteriche e si manifesta come ideale da perseguire e realizzare tra esseri umani, figli dello stesso Dio o dello stesso DNA nucleare o anche tra esseri viventi che siano umani, animali o piante, giacché figli della stessa madre terra.

La fratellanza si è tradotta in numerosi riti che ricalcano l’adelphopoiesis (dal greco “farsi fratelli”) praticata principalmente dalla Chiesa cristiana ortodossa. Questo rito sarebbe stato utilizzato per molti scopi, ad esempio per concludere un patto permanente tra i leader di due nazioni o tra “fratelli religiosi”, come sostituto della “fratellanza di sangue”, della “fratellanza di armi” tra cavalieri che si giuravano reciproca fedeltà e aiuto, della simbologia di fratellanza biologica per cui due individui tramite una ferita mescolano il loro sangue realizzando così una parentela fittizia ed anche nei cerimoniali malavitosi.

 

La fraternità

La costruzione relazionale della fraternità è un processo intenzionale affettivo costruito intorno alle modulazioni relazionali di riconoscimento e dialogicità. Fraternità è un ideale che si fonda sul riconoscimento relazionale (che rende superflua la lotta per l’affermazione del sé) e sulla dialogicità (che limita la competizione perché fa capire le ragioni dell’altro).

La fraternità non è un vincolo parentale ma un valore esistenziale realizzabile solo se si individuano le caratteristiche relazionali affini in grado di contenere le pulsioni di concorrenza, competizione e rivalità che insorgono spontaneamente dall’espressione delle relazioni primitive.

La fraternizzazione è un obiettivo di molti tipi di relazioni e, se posta sotto giusta osservazione nel suo modo di manifestarsi, può essere tipica di rapporti di amicizia, di colleganza, anche di relazioni genitori figli e non solo di relazione tra fratelli.

Il modo di concepire la fraternità è infatti esclusivamente relazionale.

La comprensione di questa relazione passa attraverso le sostanze relazionali che produce: trasparenza e chiarezza.

Queste realizzazioni nel rapporto hanno una valenza di miglioramento della fraternizzazione ma non sono tipizzazione di base di tale rapporto. Spesso per raggiungere questi obiettivi che appaiono sentimentalmente appaganti e eticamente distintivi, si trascurano altri processo che individuano la base concreta e solida della fraternità.

Le difficoltà nel produrre la relazione di fraternità sono infatti spesso dovute al fatto che da questa relazione si pretendono aspetti e caratteristiche che sono tipiche di altri modelli relazionali.

In primo luogo non si può vivere la fraternità se non vi è esplicito riconoscimento dell’identità dell’altro. Ogni forma di collusione, o di complicità, o di vincolo segreto o di patteggiamento nascosto è nemico della fraternità perché la dimensione fiduciale che essa sottintende può sgretolarsi con estrema facilità.

La fraternità intensa in senso relazionale non è un valore in sé ma un processo che costruisce un certo tipo di relazione tra tensioni e difficoltà. Innanzitutto essa va compresa giacché è assolutamente insufficiente far ricorso a suggestioni quali il “vivere da fratelli” ove non si sappia cosa tale espressione voglia dire.

Ribaltando i luoghi comuni della naturale affettività tra fratelli occorre comprendere che la fraternizzazione è essenzialmente un processo cognitivo e dinamico con una precisa irradiazione dell’affettività. Il rispetto tra fratelli è infatti il primo ed essenziale obiettivo educativo da raggiungere, prima ancora del coinvolgimento reciproco, della disponibilità e della solidarietà.

Trasparenza

Giungere alla verità relazionale passa attraverso la chiarificazione del riconoscimento dell’identità altrui. La trasparenza è il contatto che si stabilisce tra sensibilità ed intuizione: l’una si verifica nell’altra. Ciò che uno pensa è “sentito” dall’altro e viceversa.

In pratica l’identità dell’altro è percepita sensitivamente (a pelle) ma anche intellettivamente (appare evidente). Il riconoscimento dell’altro avviene sia  attraverso la comprensione delle sue forme di pensiero che dei suoi modi corporei e dei suoi flussi emozionali.

La chiarificazione relazionale ha tempi lunghi perché si muove per aggiustamenti, ricomprensioni, interpretazioni delle sfumature della sensibilità o assaporamenti delle intuizioni sulle forme mentali.

“Capisco la tua commozione e la spiego come un’inclinazione romantica della gioia che provi…” “Sento che la tua idea di passione è esattamente ciò che io intendo per commozione…”.

Ciò che caratterizza il riconoscimento è la distanza cui si pongono gli attori; è questo il distanziamento tipico della meditazione condivisa, in altre parole di una scena relazionale in cui sia l’interferenza dinamica che quella emozionale sono gestite dal controllo. Prende forma nei momenti successivi all’incontro, o al termine di un processo di disponibilità, in cui gli attori stanno assorti in silenzio meditativo, distanziato dalla situazione, e rielaborano il vissuto altrui e proprio.

Per fraternizzare occorre conoscere l’altro per quello che è. Non si può fraternizzare con superficialità o con slancio emotivo. In genere lo slancio emotivo, anche generoso e disponibile, conduce o alla delusione o all’equivoco o all’incomprensione.

Alla delusione quando gli esiti non sono conformi alle aspettative (Io pensavo che tu, mi avresti dato un aiuto viste le mie difficoltà…) e al fastidio quando i comportamenti altrui danno allergia epidermica. Esiti ulteriormente negativi conducono  all’equivoco quando si scopre che le azioni comuni non sono indirizzate allo stesso fine o sono condotte con modi e tempi diversi (pensavo che tu volessi stare un po’ di tempo con me in città e invece volevi solo comperarti un nuovo paio di scarpe…) o  all’incomprensione quando non si riesce a capire il motivo del comportamento dell’altro (possibile che non capisca che….?).

Il riconoscimento richiede un tempo di meditazione e di riflessione sull’altro. Il distanziamento meditativo deve avere come oggetto la realtà vissuta con il fratello senza incanalarsi su usuali processi primitivi ripetitivi e senza rinforzare fissazioni, ossessioni o pregiudizi.

Lo stato di trance meditativa è focalizzato ed attivo (non è un’ipnosi regressiva perché potenzia ed accelera i ritmi cerebrali ma va verso onde superbeta, Gamma o addirittura Lambda, e non Theta o addirittura Delta nel dialogo tra emisferi).

Nella meditazione focalizzata l’emisfero destro assorbe le valutazioni riflessive dell’emisfero sinistro e quest’ultimo si apre al contatto con i contenuti della mente affettiva ed emotiva e la purifica dai copioni e dai pregiudizi. L’uso della parola meditazione può apparire eccessivo in questo contesto ma va ribadito sia per togliere al concetto di meditazione quei connotati “esoterici” che oggi vengono attribuiti a tal pratica sia per riconsiderare tale pratica nell’ottica normale e comune di una specifica attività del pensiero cosciente.

Spesso l’attività del pensiero sfugge di mano e le persone considerano normale “stare soprappensiero”, ovvero lasciar liberamente fluire l’attività mentale senza dare ad essa una specifica destinazione, ma tale modalità è primitiva ed auto ipnotizzante. Le conseguenze sono espressioni e reattività disordinate e impulsive.

Meditare significa chiarificare dentro di sé e, nel caso del riconoscimento nella fraternizzazione, chiarificare la sostanza relazionale. Ogni relazione ha il suo limite ed il riconoscimento che deborda e perde l’oggetto su cui verte, si degrada in delusione (se i contenuti emotivi non corrispondono alle attese) o in fastidio (se la dinamica travalica le attese). Nasce la necessità di esprimere nel dialogo i propri vissuti.

Le tecniche della trasparenza

Intuire le forme mentali: velocità, forma e contenuto del pensiero altrui

Sentire empaticamente i flussi emozionali altrui

Osservare la dinamica della corporeità altrui

La chiarezza

Il dialogo serve a rendere chiare le questioni oscure. La sua sostanza è chiara nell’intuizione, nell’immaginazione e nella decisione e mantiene stabile il rapporto tra persone. Inoltre lo ricarica di attenzione e lo struttura. E’ antidoto dell’evitamento perché copre anche le distanze incolmabili dell’indifferenza. Il dialogo deve essere comprensibile e non logorante perché, nel primo caso, diventa oscuro, nel secondo, diventa chiacchiera inutile.

Il dialogo ricentra i codici con cui definiamo le cose; un eccessivo attaccamento alle proprie convinzioni e la strenua vigilanza delle proprie opinioni trasformano la dialogicità in dialettica. E spesso la dialettica in disputa e conflitto verbale. E’ questo il caso dell’incomprensione.

Al contrario se il dialogo non si eleva al livello raffinato di simultaneo scambio di idee e di intuizioni si può rimanere delusi. Se la concordanza non è perfetta, se la velocità di comprensione da parte dell’altro non è istantanea, se i contenuti sono scarsamente efficaci, se l’astrazione non è al livello adeguato. Se invece progressivamente si attua la chiarezza delle idee, il cui esame è visto in una prospettiva di ricerca che ha come bersaglio il miglioramento dell’affettività, allora il dialogo ha un suo fulcro e la relazione evolve. Altrimenti la ricerca dell’intesa è una ricerca che si perde nel vuoto delle astrazioni.

Nel corso del dialogo, fatto di parole che esprimono emozioni, i vissuti traspariscono con quei significati che non erano in precedenza noti. Ad ogni passaggio di presa di turno si dissolvono oscurità e molte questioni investigate si rivelano sotto un’altra luce.

Nel dialogo occorre una cornice che impedisca le interferenze esterne ai dialoganti e consenta di stare insieme con unione. Non si tratta solo di formale pacatezza dell’eloquio (che comunque non guasta) perché può anche esprimersi con alta intensità emotiva che può essere controbilanciata proprio dalla fraternizzazione.

L’effetto finale della ricomprensione, dopo il dialogo, è la contemplazione del vissuto che, spesso, si accompagna a vere e proprie rappresentazioni visive di quanto emerso nel dialogo. Queste rappresentazioni inducono a guardare ciò che è stato reso chiaro con altri occhi. Nasce spesso la necessità di agire, di riparare agli errori, di condividere, di dare qualcosa di sé quando il dialogo ci ha fatto imparare qualcosa di più sull’altro.

Le tecniche della chiarezza

Prese di turno: esposizione problematica del confidante, anche sottoforma di sfogo (primo turno); risposta supportiva del confidente (secondo turno); reazione del confidante (terzo turno)

Atteggiamenti relazionali: comprensione e partecipazione emotiva.

Allineamenti tra gli interagenti: parlare di sé, raccontare la vita, sostegno emotivo, dare consigli,  scaricare la tensione, far emergere le richieste implicite, dare informazioni.