Di seguito la trascrizione del dibattito intorno al concetto di giudicare e condannare.
Masini: L’ambiguità con cui viene usato e tradotto il verbo giudicare ha generato una enorme confusione nella applicazione di una terminologia giuridica alla morale comune tra giudicare e condannare. Questa confusione è diventata assoluta in ambito cattolico. Puntualizziamo dunque il significato delle parole. Il giudizio, in senso ampio, è un sano discernimento da cui si traggono delle conclusioni logiche di distinzione tra il bene e il male. Il giudizio è nella natura stessa del pensiero, della cognizione e della razionalità. Il giudizio è anche presente nel dialogo di valutazione su eventi, idee, comportamenti. La condanna è una conseguenza del giudizio e non è obbligata – tranne che nei sistemi giuridici dove c’è condanna o assoluzione. Questo altro termine rappresenta una ulteriore espressione critica quando viene usato in chiave spirituale come nella confessione perché rappresenta una contraddizione se è posto a fianco del concetto di perdono. Ma fermiamoci a giudizio/condanna. Il primo è legittimo e indispensabile, la seconda può essere autoritaria e oppressiva. “Senza mai condannare” è molto più chiaro di “senza mai giudicare” perché implica un sano giudizio sul bene e sul male ma non un atto contro chi abbia fatto del male. La mancanza di questa distinzione nel mondo, nelle traduzioni dei testi sacri, nei dibattiti, nelle posizioni e nelle opinioni espresse genera ipocrisia e/o buonismo relativista.
Beatrix: Io distinguo il bene dal male perché ho una morale, non perché giudico, io accetto gli altri per quello che sono e per quello che possono dare, se siamo affini nasce qualcosa altrimenti no. Non per questo biasimo le altre persone. Altra cosa è il diritto penale, sulla religione non mi esprimo in quanto è una questine meramente geografica.
Mazzoni: Nella mia esperienza di giovane adolescente c’è un ricordo che mi accompagna sempre, quando chiedevo ai miei genitori di uscire di casa dopo cena, il mio babbo con un dito inquisitore mi guardava intensamente e mi diceva: giudizio!!!. Che per me voleva dire sii giudiziosa- non fare bischerate -pensa bene a quello che fai -eccetera eccetera… Ma anche: sei tu la responsabile delle tue azioni. Non ho mai tanto ben accetto il concetto del non giudizio, tanto sbandierato nei vari tipi di counseling (con cui hanno tradotto Rogers, chissà forse anche in modo impreciso). Senza giudizio o valutazione, come è possibile distinguere il giusto dallo sbagliato? O almeno iniziare un processo identitario?
Beatrix: Ok allora giudizio secondo quali “canoni” o “regole”? Giudicare secondo la chiesa romana apostolica? O secondo il giudaismo? È forse migliore l’induismo? Secondo il giudizio induista è assasdino chi uccide una vacca ma tollera lo stupro se una femmina esce sola dopo le ore 19.00. S. Agostino “giudicava” le donne inferiori all’uomo in quanto “piene d’acqua”. Io continuo a quotare la morale.
Grazia: Penso che Rogers quando dice che non bisogna avere alcun giudizio sul cliente che abbiamo davanti non voglia dire che non dobbiamo renderci conto dei suoi errori, ma piuttosto che occorre restare interiormente aperti verso di lui. Giudicare troppo frettolosamente ci fa vedere gli altri in un modo distorto che poi è molto difficile correggere.
Ilaria: Non so…forse una sorta di giudizio è necessario per farci un’idea di chi si ha davanti o di una situazione…forse quando il giudizio ci impedisce di capire realmente o ci limita allora può essere subentrata una sorta di condanna interiore verso una persona o una categoria ecc… È un punto di non ritorno rispetto ad una apertura… si va anzi verso il senso opposto…internamente…a volte anche verso noi stessi…
Patrizia: Io credo che tutti giudichiamo e siamo a nostra volta giudicati ..nel bene e nel male…la condanna è secondo me un processo più interiore
Masini: E no. La condanna è un fatto relazionale. Giudico uno come “stronzo”, senza chissà che riferimento morale o religioso, solo perché parcheggia la macchina male sui miei spazi. Lo giudico senza mezzi termini ma tengo il giudizio per me. Oppure lo condanno ad una pena che stabilisco, a scelta: 1 gli rigo la macchina con una chiave; 2 mi rivolgo ai vigili che gli facciano una multa; 3 parlo male di lui con tutti i condomini; 4 trovo una vendetta originale e terribile (assoldo un killer). Un conto è giudicare stronzo, altro conto è condannare a morte. Non capisco perché si debbano vedere le questioni in modo intimista e complicato. Oppure far ricorso a questioni morali per risolvere anche i piccoli problemi della quotidianità. Troppa psicologia e poco buon senso.
Sara: Io ho fatto un lungo percorso sul giudizio durante la stesura dell’autobiografia, soprattutto temevo costantemente il “giudizio” degli altri nei miei confronti e per difesa “giudicavo”. Ora che riflettiamo sulla differenza giudizio/condanna mi viene da dire che allora sbagliavo parola.
Grazia: Sto riflettendo sulla differenza tra giudizio e condanna. Non è poi cosi facile capire dove finisce l’uno e comincia l’altro. Magari uno si comporta male, ma io ho voglia di capire le sue ragioni? E se lo giudico senza dargli nessuna possibilità di difesa, non lo sto condannando?
Masini: Quello che parcheggia avrà tutte le attenuanti ma fa un torto!. E la mia relazione con lui evolve solo se ammette il torto e chiede scusa
Sara: Ecco… Grazia e Enzo mi avete aiutata a chiarire ancora dentro di me… Questo mio temere la “condanna” proviene tutt’ora dal modus operandi di mia madre (citata al Convegno sui padri) che, per punirmi da adolescente, non mi parlava x settimane dando per scontato che io capissi ciò che non mi diceva e che quindi non capivo. Non mi ha mai chiesto scusa ma, dopo averle detto quanto fosse doloroso quel silenzio giudicante (oggi direi condannate), ora non lo fa più. Ha provato a condannare mio marito (per invidia) ma non attacca più perché ho fatto da avvocato e ho detto “Basta!!!”. Ora posso dormire meglio
Jenny: Ho imparato ad ascoltare la mia voce interiore che mi aiuta a capire che sensazioni mi da la persona che ho di fronte. In genere lascio comunque le porte aperte cercando quando è necessario di stare in guardia. Tendenzialmente purtroppo sono molto (troppo) tollerante e difatti con il tempo mi accorgo che il “giudizio” iniziale aveva il suo senso. Credo pero che un tipo di “condanna” sia lecita, quella di avere la facoltà di scegliere se continuare o meno a frequentare la persona in oggetto, amico o cliente che sia.
Patrizia: Io intendevo come più interiore la condanna perché nasce da un risentimento interiore che le persone accumulano dentro di sé. La condanna scaturisce dalla rabbia accumulata. Se quella persona mi ha fatto male lo condanno parlandone male con tutti.
Bruna: Sono d’accordo sulla ambiguità che si nasconde dietro all’uso del verbo giudicare e credo di non aver mai riflettuto sulla differenza tra giudizio e condanna così intimamente come lo ha posto Vincenzo. Quindi, analizzando i miei pensieri, scopro di essere necessariamente giudicante, anche se poi, in base ai miei criteri (è come mia figlia sono molto tollerante) posso accettate e semplicemente giudicare oppure condannare. Se giudico l’altro, il mio pensiero può essere ancora modificato, se lo condanno la relazione è finita.
Anna: Pensando al concetto di “giudizio” e “condanna” ho riflettuto in questi termini: il giudizio può essere costruttivo o distruttivo. Costruttivo è’ il giudizio che può alimentare le relazioni se espresso. Il giudizio costruttivo può servire a noi stessi per comprendere dove stiamo sbagliando. Può essere un giudizio che teniamo per noi è che ci orienta nelle situazioni. Poi c’è il giudizio distruttivo. Quello che distrugge le relazioni. Mi verrebbe da dire che quando il giudizio distruttivo viene espresso diventa “condanna” se non si permette ai destinatari dello stesso di difendersi…
Mirella: ” Non possiamo mai giudicare le vite degli altri perché ogni persona conosce il suo dolore e le sue rinunce. Una cosa è sentire di essere nel giusto cammino, ma un’altra è pensare cieli tuo sia l’unico cammino” (Paolo Coelho)
Masini: Non sono per nulla d’accordo con Coelho. Riina lo giudico così come giudico la sua carriera mafiosa.
Mirella: Probabilmente, anzi direi certamente è la traduzione del verbo dalla lingua originaria che non è esatta. Occorre intendere che noi non possiamo “condannare” gli altri uomini, poiché questo compete solo a Dio. Scusate se riprendo a disquisire. Per quanto riguarda il giudizio, mi accorgo che anch’io, nonostante il vangelo, non posso fare a meno di giudicare (nel senso di “valutare, farsi una propria opinione, scegliere, decidere…). Giudichiamo sempre, in ogni momento della giornata: su cosa è più opportuno o più giusto fare, su cosa pensare di questo o quel fatto, di questo o quel comportamento…. Ma quando riteniamo di essere nel giusto o valutiamo migliore o peggiore qualcosa, qualche evento o…qualche persona, sulla base di che cosa, di quali valori lo facciamo?
Katia: Ho letto tutte le vostre osservazioni, e non mi rimane che esprimermi anch’io. Bene, io vorrei partire dall’ego, io penso che il nostro ego ci porti ad avere giudizi, giudicare qualsiasi cosa ci capita a noi o all’esterno, a mio avviso dal giudizio si arriva alla violenza che può essere fisica, verbale e morale all’interno di qualsiasi relazione umana o esterna applicata all’ambiente circostante. Infatti per chi ad esempio è credente si legge ” ….E verrà per giudicare i vivi e i morti e il suo regno non avrà fine” trattasi del giudizio universale che sarà violentissimo, devastante! Se uno ci pensa o se lo immagina, questo sempre in termini religiosi, per chi non crede questa cosa non lo tocca. Dal punto di vista legale, noi uomini abbiamo creato delle REGOLE E LEGGI che dovrebbero essere rispettate, chi non le rispetta non è che subisce un giudizio, subisce una ” punizione” detta infatti “pena” che noi stessi abbiamo creato. Ogni paese applica la sua, da chi: ha la pena di morte ( che non condivido, per me è più efficace privare una persona della libertà rinchiudendola al buio per 2 metri per 2 in una cella e buttare via le chiavi, troppo facile ucciderla, deve agonizzare nella sofferenza e arrivare ad avere il desiderio lui stesso di morire anziché vivere così il resto dei suoi giorni) ergastolo, prigione. Quindi noi stessi siamo soggetti a pene che abbiamo creato noi, perché in teoria abbiamo la consapevolezza di sapere che uccidere è sbagliato, rubare pure, se non per necessità perché stai morendo di fame…Ma qui poi si apre un’altra finestra infinita e vorrei essere breve. Però appunto perché si suppone che nasciamo con una certa consapevolezza di distinguere cosa è bene o sbagliato, ahimè c’è chi non nasce e per natura non ha questa distinzione, uno che nasce con seri problemi mentali, e come fissa ha di uccidere i gatti, non ha la consapevolezza di capire che quella cosa è sbagliata!! E come puoi “giudicare” il suo comportamento se non che non giudichi, ma “valuti” che è affetto da un grave deficit e dovrebbe stare dentro una clinica. Pertanto dovremmo spogliarci dal nostro ego che porta ad avere dei “giudizi” ed entrare più in sintonia con la nostra natura, essere in risonanza con essa e seguire la sua complessità e non le complicazioni che creiamo col nostro ego.”..bisogna essere puri come i bambini per entrare nel regno dei cieli” perché i bambini non hanno ” giudizi”.
Elisabetta: Bella la sintesi che proponi Vincenzo. Mi piace soprattutto perché dà all’esperienza (dei mal di pancia propri a altrui) la funzione di costruzione del proprio sistema di valori, a cui fare riferimento. È una sintesi tra il valore della sensibilità individuale e quella degli altri, altri però significativi per noi. Una compenetrazione tra ciò che parte da me e ciò che viene da coloro che hanno la mia fiducia . E tutto questo evolve ma ma non si trasforma in qualcosa di contrario. Ho fatto un po’ di confusione….? Mi viene una domanda…. Chi violenta o uccide o commette altro male, non sente i propri mal di pancia? (tanto meno quelli degli altri….), o non li ascolta? O proprio non ne ha? L’africano che non sa che non si violentano le donne sulla spiaggia, non possiede questo tipo di mal di pancia culturalmente? Naturalmente? O il tipo di contesto in cui è vissuto non lo fa emergere….?
Sara: Io credo che la differenza tra giudizio e condanna sia come il concetto delle relazioni affini o oppositive: es. il controllo può essere al positivo responsabilità e al negativo ansia. Dopo aver letto le vostre riflessioni e quella di Vincenzo sul semplificare credo che, sia il giudizio che la condanna siano innati nell’essere umano e ci vogliono altrimenti saremmo tutti permissivi, senza regole e alla peggio buonisti.
Masini: A Elisabetta voglio dire che l’africano, se fa parte della specie umana come credo, sa benissimo che le femmine non vanno violentate ma corteggiate, sulla spiaggia, nei boschi e in città. Sa poi benissimo che è nelle caratteristiche ormonali della femmina accettare o rifiutare il corteggiamento. E sa benissimo che il maschio deve accettare il possibile rifiuto che la femmina esprime. Al massimo può essere insistente ma non molesto. Se non è un essere umano invece non lo sa perché non ha sviluppato il necessario livello di empatia per percepire il vissuto femminile (e forse è rifiutato proprio per questo perché non migliorerebbe la specie nel caso di fecondazione. Non è un maschio alfa, forse nemmeno zeta..).
Elisabetta: Ma perché non ha sviluppato il necessario livello di empatia……? È comunque una questione “educativa” in primis? La specie umana a cui dovrebbe appartenere si è evoluta in modo da sviluppare le caratteristiche necessarie alla relazione corretta tra individui attraverso l’educazione in senso lato ? Che però è poi diventato patrimonio della specie? E questo vale anche per l’Europeo che fa le stesse cose, no?
Masini: Nella evoluzione umana si sono formati gli archetipi inscritti nel DNA. Frutto dell’esperienza di millenni. Abbiamo analizzato nei nostri convegni quello del padre, del fratello e della madre, i principali. L’educazione li tira fuori e spesso li libera dai connotati negativi prodotti dal pensiero magico primitivo. In modo relativamente simile gli archetipi ci sono in tutte le etnie (oggi è vietato dire razze). Laddove sono diventati valori di riferimento il pensiero cognitivo riesce a controllare le pulsioni primitive, dove invece l’emozionalità magica è prevalente il controllo è minore e le autogiustificazioni egocentriche hanno il sopravvento. Statisticamente c’è più autocontrollo tra gli europei che tra gli africani. Così come c’è più voglia di lavorare tra i bergamaschi che tra i napoletani. E questa affermazione e le precedenti non sono razzismo ma giudizio senza condanna. Non accetto ciò che dice il buonista: conosco un napoletano che è un gran lavoratore… conosco un bergamasco fannullone… Ma la media com’è?
Marina: Ho letto tutto il dibattito finalmente ed ho una domanda. Se un ragazzo a scuola chiede di incontrarmi la prima cosa che gli dico è di sentirsi libero di dire quello che vuole e come vuole perché io non lo giudico e quel che dice resta in camera caritatis. Lo dico per tranquillizzarlo. Ma appena lo vedo e osservo come si siede o parla ecc…mi faccio un’idea su di lui, del suo idealtipo, della sua famiglia, del contesto sociale. Quindi in qualche modo lo “soppeso”. Allora mi chiedo: è giudicare? O, come ho sempre creduto, semplicemente constatare? Perché mentre mi racconta mi viene da pensare che ha commesso uno sbaglio, che ha agito d’impulso, o che è stato curioso… e non mi viene da pensare: guarda che stupido. Certo, quando sono sola e ripenso a quanto mi ha detto, allora arriva il mio giudizio…pesante. So che in quel momento lo sto giudicando, ma solo quando ne ho consapevolezza.
Masini: È giudicare, e non c’è niente di male. A volte si giudica bene bene, a volte male. Mi sono inoltrato in questa discussione proprio perché intorno a questo verbo giocano ipocrisie ed equivoci. Ed è un verbo usato malissimo con sensi di colpa per chi pensa di far del male e superficialità per chi non prende mai posizione né con se stesso tantomeno con altri. “Non giudicare” è diventato così la bandiera dell’indifferenza e della distanza sociale. “Io ti giudico ma non ti condanno ” può essere la chiave per una relazione evoluta da parte di chi è capace di bastare a se stesso e non chiede il sostegno di altri per prendere una posizione.
Sonia: “Io ti giudico ma non ti condanno” mi piace molto e mi chiarisce ancora di più. Ho riflettuto sull’importanza di conoscere e usare correttamente le parole per evitare equivoci, sull’importanza di definire e concludere per non essere vittima di manipolazioni (finestra di Overton), per un processo identitario, per non rimanere irretita nel relativismo e/o buonismo ipocrita. Ritengo che sia sbagliato il pregiudizio ma giusto e indispensabile il giudizio. Quando Rogers dice di essere non giudicanti, penso che si riferisca al pregiudizio che emerge quando si ha di fronte uno sconosciuto e lo si giudica. L’atteggiamento, direi non pre-giudicante, agevola l’apertura. Ma dopo questa prima fase, è sano e giusto saper definire l’uomo/donna e il suo operato. Più la persona giudicante è evoluta, più il suo giudizio è valido e condiviso. Non è una questione di religione, credo ecc. ma di valori ben saldi, interiorizzati, universalmente condivisi. Può il giudizio cambiare? No, il giudizio di oggi sul fatto e sulla persona che oggi lo ha compiuto, non cambia. In futuro però l’individuo può cambiare.
Chiara: Ho letto tutta la discussione e mi scuso per il ritardo nel rispondere. Quando ho letto “Bastare a se stessi” già mi sono rincuorata. Mi spiego meglio. Sono in un momento di gran confusione nelle mie relazioni e riflettendo sui miei possibili sbagli ho capito che il più grande è proprio quello di non essere sufficientemente in grado di bastare a me stessa. Ci sono occasioni in cui sono molto insicura, in cui faccio fatica a prendere una posizione. Beh, il fatto di poter riflettere sulla differenza tra giudizio e condanna mi ha aiutata. Ho bisogno di ordine dentro di me e ho capito che questo ordine devo iniziarlo a cercare dando un preciso significato alle parole. Ha ragione Vincenzo quando si sente dire che qualcuno ha giudicato qualcun altro sembra che abbia commesso uno sbaglio tremendo. Invece no…quando si dice “a parer mio..” sarebbe invece più corretto dire “a mio giudizio..”. Non c’è nulla di male. È il giudizio che si ha verso un qualche cosa o qualcuno, è una presa di posizione senza la quale non si può costruire una propria identità. È necessario avere giudizio perché sei portato inevitabilmente a ragionare e a riflettere prima di acquisirlo. Questo ti da modo di spiegare razionalmente agli altri il perché del tuo pensiero e da ciò nasce un confronto di opinioni che può essere costruttivo. Solo dopo puoi o rafforzare la tua posizione o tenere in considerazione il giudizio altrui condividendolo o meno. Simbolicamente (a mio giudizio) il giudizio lo vedo come un pensiero maturato e metabolizzato che può diventare condanna se diventa irremovibile. Mi viene in mente il passaggio dallo stato liquido a quello solido. Quello liquido (giudizio) ha una sua consistenza che può cambiare come no, mentre se si trasforma in solido (condanna) rimane tale nel tempo.
Mirella: A proposito di giudizio e condanna e perdono vi invito a leggere Mt. 18,15. “Se il tuo fratello commette una colpa, va’ e ammoniscilo fra te e lui solo; se ti ascolterà, avrai guadagnato il tuo fratello; 16se non ti ascolterà, prendi con te una o due persone, perché ogni cosa sia risolta sulla parola di due o tre testimoni. 17Se poi non ascolterà neppure costoro, dillo all’assemblea; e se non ascolterà neanche l’assemblea, sia per te come un pagano e un pubblicano. 18In verità vi dico: tutto quello che legherete sopra la terra sarà legato anche in cielo e tutto quello che scioglierete sopra la terra sarà sciolto anche in cielo”.
Masini: Il Vangelo è estremamente chiaro sul giudizio anche se penso che molte volte il verbo sia stato mal tradotto offrendo al “buonismo” una lettura che gli fa comodo. In ragione della scelta di “non giudicare” ha la scusa ipocrita per non ammonire il fratello che sbaglia. Evitando il giudizio non si pone il problema dell’ammonizione e ci si chiude nell’opportunismo del non mettersi mai in gioco.